MARK WENNER (THE NIGHTHWAKS)

MARK WENNER (THE NIGHTHWAKS) Incontro con una leggenda dell’armonica blues

Poteva diventare un avvocato. D’altronde si è laureato a pieni voti alla Columbia University di New York. Suo fratello è diventato un avvocato di successo. Quello era ciò che i suoi genitori sognavano per lui. Quello era il destino, in parte già segnato, per un ragazzo ebreo di buona famiglia cresciuto nei quartieri bene di Washington. A cambiare tutto fu un suono magico che un bel giorno o meglio una notte tempestosa uscì da una piccola radio. Era il suono del blues. Da quel giorno quel ragazzino cominciò a dire le bugie . Ogni domenica pomeriggio diceva alla mamma che sarebbe andato a vedere un film nel piccolo cinema del quartiere. Non era vero. Quel ragazzino innamorato del blues correva invece a prendere l’autobus che lo avrebbe portato dall’altra parte della città. Nei sobborghi neri. Lì dove c’era un posto in cui si suonava il blues. Gli anni passarono. Quel ragazzo diventò un giovanotto e partì per il college. Tutto sembrava andare per il verso giusto. Quando però il ragazzo tornò a casa successe qualcosa che molti sapevano che prima o dopo sarebbe avvenuta. Il ragazzino che raccontava bugie per andare a sentire la musica che gli aveva rubato il cuore scoprì che il richiamo del blues era più forte di lui. Allora mollò tutto, si coprì il corpo di tatuaggi, si mise in sella ad una potente motocicletta (l’altra sua malattia insieme al blues) e cominciò a girare l’America con la sua band i Nighthawks, i falchi della notte. Ecco, raccontata da lui, la storia di una vera leggenda del blues: Mark Wenner.

Come è cominciata la tua avventura musicale? Chi sono stati i tuoi eroi agli inizi? A dir la verità Washington e dintorni non sembrano una zona particolarmente legata al blues o comunque alla musica afroamericana, o sbaglio?
Ho cominciato ascoltando la radio negli anni Cinquanta a Washington DC dove sono cresciuto. A metà degli anni Cinquanta, specialmente dal 1955 al 1958, la musica che c’era sulla costa nord orientale degli States era meravigliosamente combinata. C’era un mix davvero straordinario. Washington poteva essere paragonata a Memphis, anche se noi non avevamo etichette come la Chess e la Stax. Ma il miscuglio di differenti culture che c’era a Washington in quegli anni era lo stesso che si poteva trovare a Memphis. A Washington c’era sempre da lavorare anche durante la Grande Depressione e nel periodo della Seconda Guerra Mondiale. La gente arrivava lì dalla Pennsylvania, dalla Virginia e dalla Carolina. Le persone che emigravano a Washington suonavano di tutto: musica hillybilly, blues, polka. E tutti naturalmente ascoltavano tutti. Per esempio Bill Haley stava creando una sorta di rockabilly mischiando la polka country & western che veniva suonata dalle band della Pennsylvania con il rhythm ‘n’blues. A volte a tracciare la melodia c’era un sassofono, altre una fisarmonica. Quando Haley arrivò per la prima volta a Washington nel 1952 ebbe un grande successo. La gente apprezzava enormemente la sua miscela musicale e tutti diventarono grandi fan della musica rockabilly. Lo stesso trattamento non lo ebbe invece Elvis Presley che iniziò la sua carriera partendo da Memphis per poi andare quasi subito a Nashville. Né a Memphis né a Nashville capivano il suo stile musicale. Anzi addirittura lo odiavano. Dovette in qualche modo emigrare nel sud ovest degli States, in Arizona e New Mexico dove si suonava western swing e dove erano più abituati a un melting pot musicale. A Nashville c’erano i puristi del Grand Ole Opry che naturalmente non amavano il suo mix musicale. Per me Washington è stato un ottimo posto in cui crescere. Soprattutto musicalmente.

Come e quando hai scoperto il blues e tutto il resto?
Ascoltando la radio. Alla metà degli anni Cinquanta sentivo Elvis, Carl Perkins, Johnny Cash, George Jones, Hank Williams e poi i Coasters, i Drifters, e tutti quei gruppi doo-wop. Ascoltavo anche Big Joe Turner e il suo jump blues; Jimmy Reed e John Lee Hooker. Nelle cose che suonava Jimmy Reed con la sua armonica c’era qualcosa che mi intrigava. E’ stato molti anni prima che cominciassi a suonare davvero ma quel sound girava continuamente nella mia testa. Negli ultimi anni delle medie, verso la fine degli anni Cinquanta, le radio di Washington cominciarono a cambiare le loro playlist. In peggio. Al posto di Jerry Lee Lewis e Gene Vincent trasmettevano cantanti pop come Frankie Avalon e Fabian. Sapevo che c’era qualcosa che non andava anche perché quelle canzoni non mi piacevano. Per fortuna qualche tempo dopo scoprii tre emittenti afroamericane che trasmettevano rhythm ‘n’ blues. Lì ascoltavo Ray Charles, James Brown, e i primi successi della Motown. Roba funky tipo il Marvin Gaye degli inizi. Quando avevo dodici o tredici anni prendevo l’autobus e andavo in un teatro frequentato dai neri: l’Howard Theater che per noi di Washington era come l’Apollo Theater di New York. Gli stessi artisti che si esibivano all’Apollo si esibivano anche lì. Gli artisti si fermavano una settimana. All’Howard Theater ho avuto la possibilità di vedere tutti i grandi del soul, da James Brown a Otis Redding. Nel frattempo continuavo ad apprezzare la musica di Jimmy Reed e John Lee Hooker. In seconda liceo lessi un articolo su Sing Out! in cui Tony Sun Glover elencava tutti i dischi di blues essenziali. Tutti quelli dei grandi. Così sono andato nel negozio in cui vendevano i dischi, ma l’unica cosa trovai fu un disco di Wilson Pickett , che naturalmente comprai. Dei nomi che avevo letto nemmeno l’ombra. Ma da lì in poi, non so nemmeno io il perché, ogni tanto sugli scaffali del negozio cominciarono ad arrivare i dischi che cercavo. Fu in quel momento che cominciai a comprare gli ellepì al posto dei quarantacinque giri. Ovviamente i primi furono quelli di Muddy Waters, Little Walter, Slim Harpo (con la sua Raining in my heart), Lightnin’ Slim e Lazy Lester. Qualche tempo dopo scoppiò il fenomeno del folk blues e cominciai ad ascoltare artisti come Sonny Terry e Brownie McGhee , e cose di quel tipo. Nello stesso periodo scoprii una compilation folk in cui c’era gente tipo Judy Collins ma anche la strepitosa versione di Born in Chicago di Paul Butterfield. Fu allora che decisi di voler suonare l’armonica. All’inizio avevo qualche perplessità. Ero convinto che solo i neri potessero suonare il blues con quello strumento. Avevo un’armonica in Do e cercavo di seguire i dischi di Elmore James che come si sa suona quasi sempre in Re. Non tutto quello che suonavo insieme a quei dischi mi dava soddisfazione ma ogni tanto sentivo di essere sulla buona strada. In quel periodo suonavo Dust my broom in terza posizione anche se all’epoca non me ne rendevo conto.

C’è un episodio particolare che ti fece dire: “Voglio diventare un musicista blues”?
Tutto successe nell’ottobre del 1966. Ero da poco all’università, a New York. Gli studenti avevano organizzato quello che da noi si chiama l’Home coming dance, il ballo più importante dell’anno. A suonare chiamarono la Paul Butterfield Blues Band. Io e la mia fidanzata dell’epoca ci siamo vestiti eleganti di tutto punto e poi abbiamo preso il treno per andare al ballo. Eravamo tutti e due piuttosto timidi. Infatti arrivammo là e nessuno dei due se la sentì di ballare. Io passai tutta la sera a bocca aperta davanti a Paul Butterfield. L’avevo sentito su disco ma dal vivo era tutta un’altra cosa. Quello è stato per me un momento cruciale. Fino ad allora avevo un paio di armoniche e spesso mi univo a qualche compagno che passava il tempo nel dormitorio del college strimpellando la sua chitarra. Da quella notte in poi tutto cambiò. Anche il mio rendimento scolastico. Comprai Hoodoo Man di Junior Wells, Stand Back di Charlie Musselwhite e East West di Paul Butterfield. Quella sera, la sera del ballo, la band suonò tutto quel disco ancor prima di averlo inciso. Non arrivai subito a Little Walter. Mi ci volle ancora un anno per conoscere la sua musica. Ma nel frattempo avevo scoperto i due Sonny Boy e Big Walter Horton. Intanto avevo acquistato un piccolo amplificatore e un microfono per armonica e facevo impazzire tutti i miei vicini di casa. Beh, ad essere sincero nessuno si è mai lamentato veramente. L’importante era non suonare di notte. Anzi ogni tanto qualcuno si affacciava alla finestra per sentirmi suonare l’armonica.

Spesso i musicisti che ho incontrato mi hanno raccontato che agli inizi hanno avuto un amico o comunque una persona con cui condividevano i loro primi passi nel mondo della musica. E’ stato così anche per te?
Sì, agli inizi cominciai a gironzolare da una sala prove all’altra suonando con diverse band. Poi un giorno scoprii che proprio nel mio dormitorio c’era un altro ragazzo che suonava l’armonica con una band di rock blues che si ispirava ai Rolling Stones. Sia lui che la band erano davvero forti. Era un ragazzo molto gentile e alla mano e presto diventò una specie di mentore per me. E non solo come armonicista. Lui mi fece conoscere altra ottima musica. Gente come Doc Watson e John Coltrane, espandendo i miei orizzonti musicali. Negli anni successivi passò alla chitarra e quindi le possibilità di suonare insieme aumentarono. Lui suonava la chitarra e io l’armonica. Purtroppo è scomparso due anni orsono. Si chiamava Bob Norman. Era davvero un grande quando suonava la sua Telecaster dentro a un Fender Super Reverb. Il suo sound era una miscela di Steve Cropper, Robbie Robertson e B. B. King. Aveva un suono pulito che arrivava subito. Insieme abbiamo suonato alle feste danzanti, a un paio di musical rock, abbiamo accompagnato diversi folk singers. In quegli anni tutto ciò che facevamo lo facevamo insieme (e qui Mark si commuove).

So che anche Little Walter ti ha influenzato parecchio. Quando lo hai scoperto?
Il giorno in cui mi resi conto di quanto fosse importante Little Walter nella storia dell’armonica blues fu nella stessa settimana in cui lui morì. Era il 1968. Little Walter era uno strumentista davvero unico. Anche per via dell’ amplificazione del suo strumento. Il suo modo di suonare era completamente diverso da quello di Slim Harpo, Lazy Lester e Jimmy Reed il cui stile al confronto di quello di Walter era sicuramente meno sofisticato. Come si sa il suono di Little Walter assomigliava più a quello di un sassofono che a quello di un’armonica. Lui era davvero avanti nel concepire un nuovo approccio all’armonica blues. Non ho mai avuto la possibilità di vedere Little Walter live, a parte quel paio di video del tour europeo dell’American Folk Blues Festival in cui tra l’altro si vede un Little Walter piuttosto arrabbiato per il fatto che gli organizzatori gli impedirono di suonare l’armonica amplificata.

Quando hai deciso che era venuto il momento di formare una band?
Nel 1972, subito dopo l’università. Per finire gli studi rimasi a New York per sei anni suonando in ogni situazione e con chiunque. Poi una volta laureato decisi di tornare a Washington e di formare una band. Se devo essere sincero il vero motivo per cui volevo tornare a Washington era Bobby Radcliff. Lui ed io eravamo rimasti in contatto durante il mio periodo a New York ed ero davvero impressionato da quanto avesse successo come musicista blues nella mia città natia. Prima di tornare a New York avevo anche pensato di trasferirmi a Boston. Naturalmente lì non conoscevo nessuno. Non sapevo nemmeno che la J. Geils Band fosse di quelle parti. Ma il richiamo di Washington era troppo forte. Bobby Radcliff aveva una band completamente integrata con due ragazzi neri e due bianchi. Un po’ come nella Butterfield Blues Band. Suonava in posti frequentati dagli hippies e in posti dove andavano gli afro americani più facoltosi. Andavo spesso a vederlo e lui mi invitava a suonare con loro qualche canzone. Per me era come un sogno. Quello era un momento storico, quello dei primi anni Settanta in cui tutto sembrava aprirsi a nuove strade sia a livello di integrazione che musicalmente. L’era di Paul Butterfield era in qualche modo passata. Intendo dire che la sua musica stava prendendo nuove direzioni. Era il momento in cui gruppi come i Thunderbirds stavano venendo fuori ma non li conoscevano in molti. Era un momento in cui sembrava che ci fosse un vuoto nella scena blues. Un vuoto che avrei voluto riempire.

Secondo me tu in quel periodo eri una specie di pioniere. Ascoltando i tuoi primi lavori ci si può rendere conto di tutto il lavoro che hai fatto per inserire un’armonica tipicamente blues in un contesto decisamente rock blues, pur mantenendo sempre un grosso legame con la tradizione del blues. Mi vengono in mente dischi di culto come Jack & Kings dove suonavate con Bob Margolin e Pinetop Perkins. Ti senti in qualche modo un precursore dell’armonica rock? Ti rendevi conto in quegli anni di stare creando qualcosa di nuovo?
Più che altro quello che volevo fare era suonare la musica con cui sono cresciuto. Quello che non ho mai voluto fare è separare i generi musicali. Per me nello stesso show si possono suonare una canzone country, un blues o un brano rockabilly. Non vedevo e non vedo nessun problema in questo. Quello che cercavamo di fare a quei tempi era in qualche modo reinventare il rock ‘n’ roll che Bill Haley aveva creato cercando di mischiare la musica hillybilly con l’errebì. E in effetti il primo album dei Nighthawks si chiama appunto Rock ‘n’ roll perché per certi versi percorrevamo lo stesso cammino che avevano percorso Bill Haley e tutti gli altri. Per dirla tutta all’inizio avevamo in mente di fare un album incentrato sul blues ma poi parlando fra noi saltò fuori che tutti volevamo diventare delle rock star. Eravamo piuttosto impressionati dal successo di band come gli Allman Brothers e la J. Geils Band. Ci sembrava che dopotutto noi stessimo suonando la stessa musica che suonavano loro. Suonavamo tutti Muddy Waters. Solo che lo suonavamo ad un volume altissimo. Cercavamo di esprimere tutta la forza che quella musica aveva fin dall’inizio, tutta la vitalità che quel suono conteneva quando Muddy suonava il blues nei locali di Chicago negli anni Cinquanta. Per noi quella musica non era certamente un pezzo da museo. Quando ascoltavo i dischi di Muddy nel sottoscala della casa dei miei genitori non ho mai pensato che quella fosse musica da suonare con tranquillità sotto il portico di casa. C’era una sorta di aggressività in quelle canzoni che mi aveva colpito molto. Quella era musica suonata per persone che andavano nei locali armati di pistole e coltelli. Gente che ogni sera tornava a casa ubriaca. Stordita dal whisky e dalla musica. Anche durante le nostre prime esibizioni con i Nighthawks c’erano spesso persone armate e poco raccomandabili. Spesso c’era qualche rissa che si creava spontaneamente o per banali motivi sulla pista da ballo. E quindi la nostra musica esprimeva anche quella tensione. Adesso quei ragazzi sono diventanti grandi, hanno figli, nipoti, baby sitters, qualcuno di loro va in giro con un bastone, ma all’epoca erano piuttosto tosti. Per certi versi il fatto che si siano calmati per via dell’età non mi dispiace ma d’altro canto mi manca un po’ quell’intensità musicale, anche pericolosa per certi versi, che si respirava in quegli anni.

Com’è nato il vostro rapporto con Bob Margolin?
Bob Margolin fu in qualche modo la chiave che ci aprì le porte del mondo musicale. A quel tempo ogni band avrebbe voluto aprire un concerto di Muddy Waters. Era il sogno di tutti. Capitò così che ci chiamarono per suonare prima di Muddy in Virginia, Nord Carolina e a Washington. In Texas per Muddy aprivano i Thunderbirds, a Boston i Roomful of Blues. A tenere le fila di tutto quanto era Bob Margolin che come una specie di ambasciatore faceva in modo che i musicisti diventassero amici fra di loro.

Quanto è stato importante Muddy Waters per voi?
Quando qualche anno fa dopo aver letto la bella biografia di Muddy Waters scritta da Robert Gordon lo chiamai e gli dissi: dovresti aggiungere un nuovo capitolo in cui si dice che Muddy è qui ancora oggi attraverso i musicisti come me. Muddy Waters è stata la persona a cui si deve quello che qualcuno ha definito la blue wave, un movimento non troppo diverso dalla new wave che è scaturita dal punk. La grossa differenza tra noi e i punk rockers è che noi eravamo dieci anni più vecchi di loro e più legati a quelle che erano le nostre radici musicali. Quello che ci accomunava è che anche noi rifiutavamo tutto ciò che era business, tutto ciò che non aveva nulla a che fare con la musica. Anche a noi l’unica cosa che importava era il suono delle nostre chitarre e l’energia che si creava durante le nostre esibizioni. Per certi versi il successo di gente come i Thunderbirds era legato al fatto che la gente si era stufata di tutti quei suoni preconfezionati. Ciò che il pubblico voleva sentire era una musica semplice e diretta come quella di Muddy.Noi non eravamo certo i migliori, ma di sicuro siamo stati i primi. Quando è uscito il primo disco dei Thunderbirds noi ne avevamo già incisi almeno quattro o cinque e ci conoscevano in tutti gli States. Una cosa che non molti sanno è che c’è stato un tempo in cui i Thunderbirds aprivano per i Nighthawks. E non solo loro ma anche Albert Collins e Buddy Guy. E Buddy Guy si arrabbiava tantissimo quando doveva aprire per noi (Mark ride sonoramente). Albert Collins pur aprendo i nostri concerti suonava come un dio. E quindi avendo tutti questi grandi musicisti che aprivano per noi le nostre responsabilità aumentavano. Dovevamo dimostrare di essere veramente bravi. Il nostro modello in quegli anni era naturalmente Muddy Waters ma anche e soprattutto la band di James Cotton che era composta da musicisti davvero straordinari. E poi Cotton aveva avuto la geniale intuizione di trasformare il vecchio blues in un potentissimo boogie woogie.

Perché il blues è diventato una lingua internazionale?
Il blues è davvero ovunque. E già da molto tempo. Secondo me fin dai tempi in cui all’inizio degli anni Sessanta tutti quei musicisti che a Chicago erano sconosciuti vennero in Europa con l’American Folk Blues Festival. Il fatto che gli europei amino particolarmente il blues è perché hanno perfettamente capito che quello è l’elemento fondamentale su cui si fonda tutta la musica moderna. L’avevano capito anche Mick Jagger e Keith Richard il giorno che si sono incontrati la prima volta su un treno che li portava a Londra. Uno aveva sotto il braccio un disco di Chuck Berry e l’altro uno di Muddy Waters. E’ una lingua composta da pure emozioni. Tutti si sentono in qualche modo toccati da questa musica che esprime davvero i sentimenti che ci sono in ognuno di noi. Se penso a quando ascoltavo i dischi di Muddy Waters a palla sul giradischi dei miei genitori: all’epoca non capivo molto del significato del blues, che dentro quella musica potessero coesistere Dio e il diavolo. L’unica cosa di cui ero certo era che quella musica riempiva il mio cuore di passione e mi faceva stare bene.

Come vedi il futuro del blues?
Credo che il blues continuerà ad esistere. Mi è bastato vedere qualche sera fa uno strepitoso gruppo di venticinquenni brasiliani che accompagnava Kid Ramos e Lynwood Slim per capire che questa musica ci sarà sempre. Quei ragazzi ci sanno davvero fare. Quando ho parlato con uno di loro ho scoperto che anche lui è un grande fan di Otis Rush. Pensa. Io e quel ragazzo:due musicisti che appartengono a due generazioni diverse e che sono nati in luoghi altrettanto diversi che conversano su uno dei più grandi chitarristi del blues. Tutto ciò è molto emozionante. Nel blues basta una sola nota per dire molto. E mi sembra che quei ragazzi lo abbiano capito. Abbiano capito che molte delle note che i chitarristi rock suonano alla fine non significano nulla. Steve Ray Vaughn suonava tante note ma lo faceva in maniera straordinaria. Molti dei suoi cloni odierni invece non trasmettono nulla. La stessa cosa si può dire di due miei concittadini, due grandi chitarristi come Roy Buchanan e Danny Gatton che riuscivano a mettere insieme una tecnica fuori dal comune con un grande cuore.

Sei d’accordo che chi non ama il blues ha un buco nell’anima?
Abbastanza. Anche se io l’avrei concepito in maniera diversa e cioè che se non senti il blues (nel senso di feeling n.d.r.) allora si che hai davvero un buco nell’anima.

Foto di Angelina Megassini