Il blues, il cotone, la fabbrica, la miniera…

Il blues, il cotone, la fabbrica, la miniera, la ferrovia e la musica popolare americana

Nel 1826, James Smithson, uno studioso inglese solo, molto ricco e arrabbiatissimo con la burocrazia del governo di Sua Maestà che lo aveva vessato tutta la vita, fece testamento nominando come unico erede delle sue fortune il governo degli Stati Uniti; affinché questo fondasse un’istituzione a lui dedicata con il compito di “preservare e diffondere il sapere dell’uomo”. Il 10 agosto del 1846 venne ufficialmente inaugurata a Washington la Smithsonian Institution, uno dei più importanti istituti museali d’America. La Smithsonian Folkways Recordings invece, è un’etichetta discografica senza fini di lucro e dipendente dall’istituzione omonima, che ha l’incarico di raccogliere, conservare e condividere tutto il materiale sonoro frutto di migliaia di ore di registrazione effettuate dai più importanti studiosi di cultura popolare statunitense. La missione dell’istituto è quindi quella di continuare il lavoro iniziato da Moses Ash il leggendario fondatore della Folkways Records. E spulciando il catalogo Smithsonian Folkways si prova davvero l’incredibile esperienza di ascoltare suoni che ora sono scomparsi per sempre. Suoni e voci che esistono solo in quei preziosissimi archivi. In quest’ottica s’inquadrano due splendide raccolte Smithsonian Folkways: Classic Railroad Songs e Classic Labor Songs. Classic Railroad Songs si apre con una registrazione sul campo effettuata da Emory Cook nel 1950 alla stazione di New York. Sono solo pochi secondi, ma il viaggio nel magico mondo delle locomotive a vapore è definitivamente iniziato. Il treno, quasi superfluo ricordarlo, è diventato nell’epopea americana, sinonimo di libertà e quindi molti dei canti raccolti in questo disco vengono dagli afroamericani, lavoratori delle ferrovie per eccellenza, e sui quali il macigno della schiavitù ha pesato per molti, troppi anni. Dopo un inizio per certi versi toccante, il cd prosegue con “Train 45” dei celebri New Lost City Ramblers di Mike Seeger, fratello del più famoso Pete.

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Ma è con la traccia numero tre che le bellissime storie sui treni a vapore e suoi protagonisti hanno inizio. Storie magnificamente raccontate nel bellissimo libretto allegato. Il brano in questione è dedicato a Casey Jones qui chiamato Kassie Jones. A cantarci la storia del leggendario macchinista, storia sulla quale torneremo più avanti, un’autentica leggenda del blues ovvero Furry Lewis. Con il pezzo numero quattro arriva il decano dei folksingers americani: Pete Seeger. Il brano Jay Gould’s daughter, ironico e mordace, è incentrato sulla figura di Jay Gould che a metà ottocento fu uno dei primi leggendari e famigerati costruttori e proprietari di ferrovie. Sua era la famosa Union Pacific. Qui si parla del famoso riding the blinds, una pratica tanto cara sia agli hobos che ai bluesmen. Si diceva che l’acidissima figlia di Gould odiasse a morte tutti coloro che viaggiavano gratis sui treni del padre aggrappandosi alle maniglie dei vagoni postali. Tutti coloro che usavano fare il riding the blinds. Il brano successivo è Railroad Bill. Interessante anche la storia che c’è dietro questa composizione. Alan Lomax ci racconta che Railroad Bill era un nero che lavorava in una fabbrica di trementina. Il suo vero nome era Morris Slater. Dopo essersi ammalato in fabbrica a causa dei micidiali vapori sprigionati dalla trementina, Slater fu costretto a licenziarsi e iniziò ad assaltare i treni merci per procurarsi il cibo con cui sfamare la sua famiglia. La sua storia è diventata leggendaria perché anche Railroad Bill, un po’ come tutti i romantici briganti, rubava alle ricche compagnie ferroviarie per donare ai poveri. I brani contenuti nel cd sono la bellezza di 29 e raccontare la storia di tutti sarebbe quasi impossibile. Tra i rimanenti brani ad averci colpito sia per l’esecuzione sia per la storia narrata c’è sicuramente quella dedicata al Fast Flying Virginian, un treno velocissimo, per quei tempi, ma che finì tragicamente la sua corsa contro una roccia nell’ottobre 1890.

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Altro brano commovente è He’s coming to us dead dei New Lost City Ramblers. La toccante canzone parla di un soldato morto durante la Guerra Civile il cui corpo venne riportato a casa da un treno merci. E tra i brani ferroviari un posto di rilievo lo occupa sicuramente John Henry, la più famosa canzone folk americana qui cantata dagli immortali Woody Guthrie e Cisco Houston. Il brano narra la storia del leggendario John Henry che lavorò col suo mitico martello alla creazione di una grande galleria. Nella canzone si racconta di “un crudele capitano che voleva sostituire le braccia dei lavoratori con le trivelle a vapore”. Ma a salvare i propri compagni dal licenziamento, anche se ciò gli costerà la vita, ci penserà John Henry che dirà al padrone: “Potrai anche sostituirmi con le tue macchine, ma se devo morire di fame, allora morirò da uomo, con un martello in mano, lottando e sconfiggendo con il mio lavoro le tue macchine”. Un altro brano sicuramente degno di nota è Jerry go and oil that car eseguito da Haywire Mac la cui voce si può ascoltare durante i titoli di testa del film Fratello dove sei? dei fratelli Coen. Verso la conclusione del disco è l’armonica di John D. Mounce a raccontarci la storia di un altro mitico ferroviere Casey Jones. Il brano venne scritto a fine ottocento da un lavoratore afroamericano di nome Wallace Saunders. E’ la storia di John Luther Jones nato nel 1863 a Cayce in Kentucky. Da una storpiatura del nome del suo paese d’origine nacque il suo soprannome. Casey Jones era un infaticabile lavoratore e una vera e propria forza propulsiva nel promuovere l’adesione al sindacato da parte di tutti i suoi compagni. Il mitico macchinista perì quando il suo treno, il “Southbound # 1” della Illinois Central, entrò in collisione con un convoglio merci fermo su un binario. Era il 30 aprile 1900 e lui aveva solo trentasette anni. In una delle tante versioni della canzone si narra che quando Casey Jones morì, riuscì a far iscrivere al sindacato persino gli angeli del Paradiso. Il disco si conclude con un paio di canzoni ferroviarie famosissime: Wreck of the old 97 e Midnight Special. Wreck of the old 97, narra che il 17 settembre 1903, un treno postale, il 97 appunto, stava viaggiando da Washington ad Atlanta. Siccome era in ritardo, in Virginia la compagnia sostituì il macchinista con uno più “fresco”, pensando di poter recuperare qualche minuto. Il nuovo macchinista spinse a massimo la locomotiva. Il treno andò più veloce ma nei pressi del ponte di Denville deragliò e precipitò nel fiume. Tutti gli otto componenti l’equipaggio perirono. Midnight Special che i Lomax raccolsero nel penitenziario di Sugarland, Texas è dedicata a un treno che ogni notte passava vicino alla prigione. Quel treno che transitava intorno a mezzanotte divenne ben presto per i carcerati sinonimo di libertà. Il cd si chiude con gli sbuffi di una delle ultime locomotive a vapore registrate da Vinton Wight nei primi decenni del novecento, affinché il loro suono non andasse perduto per sempre. Anche Classic Labor Songs parla di un mondo che non c’è più ma che non dobbiamo assolutamente dimenticare. Il disco ha un inizio strepitoso e da pelle d’oca. Si tratta del brano Joe Hill, superbamente interpretato dal cantante, attore e attivista del movimento per i diritti civili degli afroamericani Paul Robeson, indimenticabile compagno di lotta di Martin Luther King. La canzone narra la storia del leggendario cantante e sindacalista Joe Hill. Cantava le ingiustizie nelle fabbriche e non piaceva per niente ai padroni che per toglierlo di mezzo lo fecero accusare ingiustamente di omicidio. Hill fu condannato a morte nel 1915 a soli 36 anni. E questa è solo una delle emozionanti storie contenute nel libretto del cd. Bread and roses ovvero il pane e le rose è il brano numero due. La canzone venne cantata per la prima volta durante uno sciopero in una fabbrica tessile di Lawrence, Massachusetts nel 1912. Marciarono in 20.000. La maggior parte di loro erano donne. Sullo striscione che portavano c’era scritto: “Vogliamo pane e rose”. Combattevano non solo per ottenere un salario più giusto ma anche per avere condizioni di lavoro più umane. Erano i tempi in cui le donne erano davvero come cantava John Lennon “i neri del mondo”. Un altro brano bellissimo è We shall not be moved che diventò un inno durante la lotta dei neri per i diritti civili. Fu cantata per la prima volta durante uno sciopero in Virginia e deriva direttamente da un antico spiritual afroamericano. La traccia successiva Roll the Union on è eseguita da John L. Handcox che fu un importante attivista sindacale nei campi dell’Arkansas degli anni trenta. Bracciante lui stesso, Handcox tentò di migliorare le canzoni di lavoro dei mezzadri sfruttati la cui vita, durante la Grande Depressione, era davvero dura. Fu tenacemente osteggiato dai padroni e rischiò addirittura il linciaggio. Anche Roll the Union on è stata scritta sulla melodia di uno spiritual afroamericano. E la vita era davvero difficile per chi voleva impegnarsi nel sindacato durante i primi decenni del secolo scorso. Emblematica sotto questo aspetto è anche Cotton mill colic. La canzone descrive la barbara uccisione nel 1929 in North Carolina da parte della polizia di una colonna del sindacato di quegli anni: Ella May Wiggins. Il brano numero sette “The mill was made of marble” è un’altra celeberrima labor song. E’ stata tradotta in numerose lingue ed è diventata una delle canzoni di lotta più cantate al mondo. Particolarmente intenso il testo in cui si sogna una fabbrica da sogno i cui muri sono fatti di marmo prezioso e i macchinari d’oro lucente. Una fabbrica in cui non si diventa subito vecchi per l’immane fatica. La canzone successiva Aragon mill venne composta da Si Khan che scrisse diversi brani sulle condizioni esistenti nel sud degli States, condizioni che pesavano come macigni sui lavoratori dell’industria tessile legata al cotone. La canzone prende spunto da ciò che gli disse un lavoratore che abitava vicino a un’infernale e rumorosissima fabbrica ora dismessa e chiusa per sempre: “…C’è così tanto silenzio adesso, che quasi non riesco a dormire…”. 1913 massacre è sicuramente una delle più celebri topical song dell’immenso Woody Guthrie. Il brano è una vera canzone da cantastorie e mette in luce ancora una volta le tragiche ma significative storie che stanno dietro alle migliaia di canzoni raccolte dalla Folkways.

E la storia di 1913 massacre in cui si narra di una tragedia dovuta alla cupidigia e al razzismo più becero, ve la voglio raccontare per intero. Per intero perché ebbe protagonisti, loro malgrado, dei poveri bambini, in gran parte italiani. Una storia tragica che il 24 dicembre 1913, quasi cent’anni fa, avrebbe fatto trattenere il respiro per l’orrore provato a quell’America benpensante tutta avviluppata nel disumano vortice che la spingeva verso l’arricchimento più esasperato e verso quell’affermazione del ruolo di grande potenza militare e tecnologica che di lì a poco l’avrebbe portata a far parte del primo conflitto mondiale. I figli degli emigranti che lavoravano in miniera si erano messi il vestito della festa. Le bambine avevano ornato i loro capelli con il nastro più bello. Quando si aprirono le porte della Società di Mutua Beneficenza Italiana, corsero tutti a far festa intorno all’albero che campeggiava al centro del grande salone. I loro padri erano tutti poveri minatori che si ammazzavano di fatica per una paga da fame nella miniera di rame di Calumet, un piccolo villaggio ai confini tra il Michigan e il Canada. Era gente che veniva da ogni parte del mondo: c’erano svedesi, norvegesi, finlandesi e tanta gente dall’est europeo. Ma erano gli italiani i più numerosi, erano talmente tanti da essere riusciti a costruire con tanta fatica e risparmio un edificio che potesse ospitare la loro società di solidarietà e beneficenza. Un edificio di legno dove poter ritrovare un po’ della loro amata Italia tra un caffè e una grappa capaci di riscaldare i loro cuori stretti dalla morsa del gelo che contraddistingue quella zona d’America dimenticata da Dio e dagli uomini, in cui l’inverno sembra non finire mai. Si diceva che fossero anarchici e ribelli, ma tutto ciò che volevano, e per questo erano scesi in sciopero, era migliorare le loro condizioni di lavoro ed ottenere un salario più giusto. Lo sciopero fu durissimo, com’erano duri tutti gli scontri di classe di quegli anni. Era cominciato a luglio e andava avanti da quasi sei mesi. I minatori però, tenevano duro, non mollavano. La paga per quei minatori non arrivava nemmeno a un dollaro al giorno: un’autentica miseria che i padroni pagavano per un lavoro pesante, pericolosissimo e dai ritmi disumani. I minatori alla vigilia di quel Natale erano quasi ridotti alla fame. Sei mesi di sciopero, senza stipendio, avevano prosciugato i loro seppur minimi risparmi. Era una lotta durissima, faticosa che si stava per tramutare in un autentico dramma. Ma tutti, con una commovente solidarietà d’altri tempi, si erano stretti intorno ai lavoratori italiani. E forse anche per ringraziare tutta la popolazione che si era schierata dalla loro parte, i minatori italiani vollero organizzare una festa per festeggiare comunque l’arrivo del Natale. Una festa alla buona per gente semplice. I loro figli, come sempre, sarebbero comunque stati felici accontentandosi anche solo di vedere l’albero e ascoltare qualche dolce canzone di Natale. Faceva molto freddo e la cittadina si era ricoperta di neve la vigilia di Natale. E ne era venuta tanta di neve, come sempre d’altronde. I bambini di ogni età raccolti nella sede della Società di Mutua Beneficenza erano davvero tanti. Giocavano a rincorrersi nella grande sala e ballavano scherzosamente con i loro genitori al suono di una piccola orchestra formata da una chitarra, un organetto, un mandolino e un’armonica a bocca. Si erano tuffati felici in quelle torte fatte in casa che le signore avevano portato per contribuire alla festa. Lo sciopero e il freddo parevano lontanissimi e per un momento sembrava che la dolcezza del Natale avesse avuto il sopravvento sulla cattiveria e sull’ingordigia degli uomini. Fu proprio in quel momento di apparente tranquillità e serenità che una squadraccia assoldata dai padroni delle miniere mise in atto quel piano tragico e malvagio, quello scherzo nefasto e crudele così ben delineato da Guthrie che, nella sua canzone racconta: “…Gli scagnozzi del boss del rame ficcarono le loro teste nella porta e uno di loro urlò: “C’è un incendio!”. Una donna dall’altra parte gridò: “Non è vero non c’è niente del genere, continuate la festa…”. Fu tutto inutile. Presa dal panico l’orchestra smise di suonare e tutti afferrarono i loro figli per precipitarsi fuori, per mettersi in salvo. I bambini iniziarono a piangere e ad urlare terrorizzati. Quando i primi arrivarono alle porte del salone, le trovarono sbarrate dal di fuori. Fu proprio allora che nel salone cominciò a serpeggiare la paura più atroce e l’inferno si scatenò in un baleno. Inutili gli sforzi di chi, avendo capito cosa stava accadendo gridava a più non posso: “E’ solo uno scherzo! E’ solo uno stupido scherzo!”. Non ci fu nulla da fare. Guthrie riesce con poche parole a descrivere sia il tragico avvenimento sia gli infami protagonisti della storia quando canta: “…Quei criminali ridevano per il loro scherzo criminale mentre tanti poveri bambini venivano calpestati a morte sulle scale…”. Fu un massacro vero e proprio. Un’autentica strage. Quando finalmente la folla riuscì a buttar giù le porte e con il passare dei minuti il terrore cominciò a placarsi, una terribile angoscia scese sulle famiglie sudate e intirizzite. Non c’erano bambini con loro. Dov’erano i bambini? Cominciò a quel punto un appello interminabile destinato a rivelarsi inutile. I genitori risalirono affannosamente le scale urlando disperatamente i nomi dei loro figli. Quello che si trovarono davanti fu uno spettacolo agghiacciante: decine di bambini a terra morti per essere stati orribilmente calpestati dalla folla terrorizzata. Settantatre furono le vittime di quello che giustamente Woody Guthrie descrisse come un autentico massacro. Queste le parole che il grande folksinger mise a chiusura del suo brano. “…Non mi è mai capitato di vedere una cosa così terribile. Portammo i nostri piccoli vicino al loro albero di Natale. I criminali fuori stavano ancora ridendo… Il villaggio era illuminato da una fredda luna di Natale… Madri e padri piangevano e con loro i minatori che tra le lacrime dicevano: “Guardate a cosa ha portato l’avidità dei padroni…”. Per fortuna, dopo quasi cent’anni, è rimasta questa grande canzone di rabbia e di dolore a ricordarci quella strage prodotta da uno scherzo infame.

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E per fortuna ci sono le registrazioni della Folkways a ricordarci che certe tragedie non dovrebbero accadere mai più. Accanto ad una foto ingiallita dell’epoca che ritrae i corpi di nove bambini stesi su un tavolaccio e coperti da un lenzuolo, restano le parole indignate e commoventi di Woody Guthrie. Per non dimenticare il passato. Perché è solo non seppellendo i ricordi che possiamo sperare in un futuro luminoso e giusto. Ma il disco continua e tra le 27 tracce contenute ci sono ancora diverse grandi canzoni come ad esempio Which side are you on? dedicata a quei poliziotti che perseguitavano i minatori attivi nel sindacato. Il marito di Florence Reese era a capo dei lavoratori in sciopero. Il giorno che i poliziotti al soldo dei padroni andarono a cercarlo a casa per farlo fuori, non solo non lo trovarono, ma Florence li accolse cantando il ritornello di questa canzone destinata a diventare un’icona: Which side are you on? – Tu da che parte stai?. E un altro brano degno di nota è sicuramente la commovente registrazione a cappella di Black Lungs dedicata ai minatori, così come toccante è Been rolling so long bellissima canzone sulla vita dei truck drivers, i leggendari camionisti americani. Forse è il brano più convincente e autentico sulla vita di questi lavoratori. E’ un brano scritto da un vero camionista ed è lontano mille miglia dallo stereotipo del camionista narrato in tante canzoni country. Drammaticamente attuale la traccia successiva We just come to work here scritta da qualcuno che era stato licenziato per essersi rifiutato di eseguire un lavoro pericoloso: “Siamo venuti qui per lavorare non per morire” recita il testo. E nella canzone seguente, One day more, si canta: “…E se i padroni terranno duro, ebbene noi terremo duro un giorno più di loro …”. Il disco si conclude con Solidarity forever che venne scritta nel 1915 e dedicata alle lotte dei minatori delle miniere di carbone. E a proposito di solidarietà, che fine ha fatto in questi tempi bui, cupi e disperati questa parola che ha dato conforto e speranza a milioni di lavoratori? E soprattutto Which side are you on? – Tu da che parte stai?