RICK HOLMSTROM

RICK HOLMSTROM Una sei corde al servizio del blues

Nato a Fairbanks nel cuore dell’Alaska il 30 maggio del 1965, Rick Holmstrom è oggi uno dei chitarristi più stimati e rispettati nel mondo della chitarra blues contemporanea. Ieri con William Clarke, Rod Piazza e Johnny Dyer è stato tra quelli che hanno definito la chitarra nel west coast blues, e oggi, con Mavis Staples è uno degli architetti principali di un sound bellissimo e affascinante che ha ben pochi eguali nell’ambito della musica nera. Questa che segue, seppur realizzata con il prezioso ausilio di internet, è il risultato di una lunga chiacchierata avvenuta su un volo New York – Los Angeles, mentre Rick tornava a casa dopo aver suonato con Mavis Staples a Woodstock in uno dei leggendari “Midnight Ramble” di Levon Helm, il mitico batterista di The Band. Invece di riposare il grande chitarrista ha deciso di rispondere alle mie domande. Mi ha confidato che quando si parla di musica non è mai stanco. E forse è anche per questa sua estrema gentilezza, per questa sua straordinaria disponibilità e per una sensibilità non comune nel mondo della musica che Rick Holmstrom è diventato quello che è, ovvero un nome importantissimo quando si parla di una sei corde da favola, una sei corde al servizio del blues.

Ho letto da qualche parte che la passione per la musica ti è stata trasmessa da i tuoi genitori. E’ vero?
Beh, entrambi i miei genitori amavano la musica, anche se nessuno di loro suonava. Quando sono nato, i miei avevano più o meno vent’anni e quello era il periodo in cui i Beatles stavano esplodendo e la musica di Elvis, Chuck Berry e Buddy Holly era ancora nell’aria, quindi forse tutto quel sound che c’era intorno è entrato anche dentro di me. Mia madre non lo ammetterebbe ma lei è una persona estremamente musicale. Mio padre da giovane è stato un dj e così a casa eravamo sempre pieni di dischi. Il primo film che mi ha portato a vedere è stato “Hard Days Night” dei Beatles. Quando ho cominciato a prendere la musica seriamente, il che è accaduto intorno ai vent’anni, mio padre purtroppo era già morto. Mia madre mi ha sempre incoraggiato molto in questo senso. Il che non è affatto scontato, soprattutto se consideriamo il fatto che il voler diventare un musicista blues forse non ha mai avuto un grande senso per lei dopo tutti i sacrifici che ha fatto per farmi prendere una laurea. “But when the spirit calls, you got to move!” (Ma quando lo spirito chiama, devi andare! N.d.r.).

Quali sono gli eventi della tua carriera che consideri indimenticabili? E quali sono le persone a cui devi di più?
Il mio primo ingaggio da professionista fu in apertura ad un concerto di Albert King (all’epoca ero con William Clarke). In verità Albert voleva finire lo show il prima possibile e quindi ci chiese se poteva suonare prima di noi. Così, tecnicamente parlando, nel mio primo ingaggio pagato, Albert King era l’artista che apriva per me. Non è una cosa indimenticabile? Ho avuto bellissimi momenti anche con Smokey Wilson, William Clarke, Johnny Dyer e Rod Piazza: tutti formidabili bluesmen e tutte persone a cui devo parecchio. Penso che dovrei iniziare parlando di William Clarke che fu il primo ad offrirmi un lavoro. Praticamente ho cominciato con lui. All’epoca ero davvero un principiante assolutamente inesperto. Non che sapessi suonare un granché ma cercavo di farmi notare. E lui sentì qualcosa in me che gli piacque. Difficile dire cosa sia stato, ma io sono felice che quella cosa lui l’abbia sentita. Bill (William Clarke n.d.r.) mi portò con se sulla strada macinando miglia su miglia per tre anni, suonando in ogni localaccio esistente, rompendo e riparando il nostro pulmino più volte, investendo un cervo nel mezzo della notte nel Montana, sopravvivendo a una terribile tempesta di neve in Colorado, dormendo in un sacco a pelo in alcuni orribili motel della Louisiana che, come ricordo una volta tornato a casa e aperte le valige, ti facevano trovare decine di insetti di tutti i tipi nella tua biancheria sporca. E non sto esagerando! Anche quelli sono stati momenti indimenticabili, nel bene e nel male. Tutto in quegli anni era molto stimolante e io mi esercitavo continuamente per arrivare ad essere abbastanza bravo da poter condividere il palco con Clarke senza sfigurare. Johnny Dyer è un altro a cui sono ancora molto legato . Ho avuto diversi momenti molto divertenti con lui. Ci mettemmo insieme agli inizi degli anni Novanta suonando per lo più localmente nell’area intorno a Los Angeles; e poi un bel giorno decidemmo di allargare il nostro giro. A quell’epoca quando ci incontrammo, Johnny faceva ancora il camionista. In effetti diventare un musicista professionista non gli è mai interessato più di tanto. E’ pazzesco come sia riuscito a tenere il profilo basso per così tanti anni. Semplicemente credo che Johnny non avesse grandi ambizioni se non quelle di divertirsi a suonare con i suoi amici. Mi ricordo che la prima volta che incidemmo insieme il nostro obiettivo era solo quello di mettere insieme una cassetta a nastro che ci fosse di aiuto nella ricerca degli ingaggi. Johnny aveva cantato alla grande in studio ed io ero veramente orgoglioso dell’ottima riuscita di quelle registrazioni. Ne ero così fiero che mandai quella cassetta alla Alligator, alla Blind Pig e alla Black Top; giusto per vedere se riuscivo ad ottenere qualche riscontro. Hammond Scott (della Black Top n.d.r.) mi chiamò cinque giorni dopo aver spedito il pacchetto: non solo voleva stampare quelle canzoni su disco ma addirittura mise il mio nome sulla copertina dell’album e mi diede il credito come produttore. La cosa fu talmente inaspettata da lasciarmi a bocca aperta. A far breccia nel cuore di fratelli Scott, giù a New Orleans, fu probabilmente quel “Mississippi sound” indolente ed evocativo che Johnny Dyer ha nella sua voce. Gli anni subito dopo l’uscita di quel disco in giro con Johnny furono pazzeschi sotto ogni punto di vista. Era tutto molto eccitante anche se per me c’era sempre un incredibile quantità di lavoro da fare: organizzare le serate, produrre i dischi, scrivere la maggior parte delle canzoni ed essere il responsabile musicale della band. All’inizio sembrava facile poi tutto cominciò a diventare davvero pesante. Sentivo che tutto quello stress avrebbe prima o poi minato la mia salute. L’avere tutte quelle responsabilità sulle spalle mi faceva sentire molto più vecchio dei miei 28 anni. Non credo che ancora oggi Johnny abbia capito quanto fosse dura per me. In buona fede ovviamente. Secondo me lui ha sempre pensato che fare il musicista fosse sicuramente un lavoro più leggero che guidare il camion e che quindi io non avessi problemi di sorta. Beh, tutto ciò è molto relativo. In ogni caso, ripeto, penso che lui fosse in buona fede anche se per me stava diventando davvero sempre più difficile. Stavo pensando di lasciare la band e proprio in quel periodo Rod Piazza mi chiese di unirmi alla sua formazione. Certo, non fu semplice dire a Johnny che me ne andavo. Eravamo amici. In cuor mio pensavo e lo penso ancora oggi che forse Johnny si sentì in qualche modo sollevato e contento di avere una buona scusa per smettere di fare il musicista di professione e tornare a guidare il suo amato camion. I sette anni con Rod Piazza sono stati quelli in cui sono diventato quello che sono oggi. Rod è un bravissimo showman, un geniale arrangiatore e un leader davvero paziente; senza dimenticare poi che è anche uno dei più grandi armonicisti di sempre. In quegli anni nella scena blues, i Mighty Flyers erano davvero considerati una band di grande successo. E in effetti era bello e anche un po’ strano andare ai concerti sapendo già in anticipo che il pubblico sarebbe andato in visibilio per noi. Era quasi garantito! Questa è una cosa che ti dà una carica incredibile. Inoltre, Rod è colui che mi ha incoraggiato a cantare. In verità anche Johnny lo aveva fatto, ma in quegli anni io ero troppo impaurito dal fatto di andare al microfono dopo di lui. Con Rod fu diverso. Mi convinsi che ci dovevo provare. Così ogni sera cantavo qualche canzone e da lì ho cominciato a pensare che forse avrei potuto anche intraprendere una carriera come solista. Ho imparato davvero tanto da Rod. Mi ha preso sotto la sua ala e mi ha fatto crescere. Credo che i miei primi due dischi solisti fossero il risultato di tutta l’esperienza che ho accumulato suonando con lui. Naturalmente anche suonare con Mavis Staples è un’altra di quelle cose che può essere senz’altro definita indimenticabile. Ormai sono con lei da 4 anni. Ho suonato su “Hope at the Hideout” il suo disco dal vivo nominato ai Grammy e su “You Are Not Alone” che invece il Grammy lo ha vinto. Ogni minuto passato con lei ha qualcosa di speciale. Mavis è la stessa persona sia sul palco che fuori e questo già dice molto. Una delle più belle cose che si possono dire su di lei come artista è che Mavis è in grado di affrontare tutti gli stili della musica americana senza essere necessariamente legata ad un genere in particolare. Noi suoniamo ai festival gospel, ai festival soul e r&b, ai festival di jam music, ai festival jazz, ai festival rock , ai festival folk e a quelli bluegrass… Da Newport Jazz al Bonnaroo, all’Hardly Strictly Bluegrass al Pocono’s Blues per Mavis c’è sempre posto. E poi suonando con lei, è incredibilmente stimolante poter ascoltare, incontrare e frequentare notte dopo notte, concerto dopo concerto, artisti come Emmylou Harris, Buddy Miller, i Blind Boys of Alabama, Elvis Costello, Allen Touissant, Nels Cline, Levon Helm e Ornette Coleman. Il tutto mentre suoniamo ciò che ci piace e in maniera molto rilassata. Mavis è così brava ed amata dal suo pubblico che noi della band non dobbiamo fare molto affinché la gente accora numerosa a sentirci. Inoltre è anche interessante vedere come i concerti della Rick Holmstrom Band siano evoluti come conseguenza al fatto che Jeff (Turmes il bassista n.d.r) , Stephen (Hodges il batterista n.d.r.) e io assorbiamo come delle spugne tutta quella grande musica. E’ veramente una grande band. Non penso che ci sia in giro un’altra band come la nostra anche se forse non dovrei essere io a dirlo! Hodges e Turmes sono dei musicisti interessanti e creativi, entrambi hanno una personalità molto forte e musicalmente sono davvero superlativi. Ciò che riusciamo a creare insieme è un risultato sonoro che arriva direttamente dagli anni che abbiamo passato suonando con tanti artisti blues ma anche con musicisti di differente estrazione come Ahmad Jamal, Richard Thompson, Wilco, Bill Frisell, Neko Case, Allen Touissant e tanti altri. Il nostro viene definito un suono “grosso”; senza per questo essere necessariamente una band particolarmente rumorosa. Elvis Costello elettrizzato da una nostra performance, una volta disse: “Eppure avrei giurato che ci fossero più di tre musicisti su quel palco!”. Qualche anno fa sono stato anche in tour con Booker T . Stare dietro a Booker ogni notte per tre settimane è stato incredibile. Quel tipo ha davvero una grande anima. E’ profondo, calmo e ha un cuore d’oro, proprio come Mavis. Ho imparato tanto da lui sull’arrangiamento dei brani strumentali. Inoltre è incredibilmente paziente. Per esempio, senza saperlo e senza volerlo ho suonato un accordo sbagliato su una delle sue canzoni tutte le sere per un paio di settimane; poi un giorno mentre facevamo le prove per uno spettacolo mi ha preso da parte e mi ha chiesto molto gentilmente se fosse possibile per me suonare un altro accordo. Avrebbe potuto darmi un’occhiataccia sul palco oppure farmi notare il mio errore di fronte a tutta la band, ma Booker è fatto così. E’ davvero unico.

Tu hai cominciato la tua carriera parecchi anni fa, come è cambiato il modo di suonare il blues dalle tue prime esperienze?
Per me durante tutti questi anni non è mai cambiato nulla. Ho sempre avuto più o meno lo stesso approccio indipendentemente dal contesto in cui mi trovavo. Per esempio quattro o cinque anni fa c’è stato un breve periodo, in cui suonavo contemporaneamente con la vecchia band di Hollywood Fats, con Mavis Staples, con James Harman e con il mio gruppo, senza avere problemi di nessun tipo, portando rispetto a tutti e divertendomi tantissimo, soprattutto musicalmente. E dire che quello poteva anche essere un periodo stressante, perchè proprio in quegli anni è nata anche Ellie, la nostra seconda figlia. Nonostante tutto questo ho un ricordo bellissimo di quei giorni. Tra la musica e l’essere di nuovo padre mi sentivo come se fluttuassi morbidamente su di una nuvola composta da tutto ciò che di buono e di giusto c’è in questo mondo. Anche i miei idoli sono gli stessi di quando ho cominciato: Little Walter, Miles Davis, Chuck Berry, Pops Staples, Neil Young, i Blasters, Mose Allison, Gatemouth Brown, Creedence Clearwater Revival , Bo Diddley, Ahmad Jamal, Mahalia Jackson, i Beatles, i Rolling Stones, The Band, Lightnin’ Hopkins, Bob Dylan, Robert Lockwood Jr., Lee Scratch Perry, Otis Redding, Booker T & the MG’s, i Meters, Muddy Waters, Tom Petty, JJ Cale, Count Basie e Magic Sam. Certo oggi potrebbero esserci anche dei nuovi ingredienti nel mio stile rispetto a quando ho iniziato nel 1989, ma il mio approccio, ripeto, è lo stesso che ho sempre avuto. Cerco sempre di suonare con onestà, sentimento e rispetto per le dinamiche del brano. E mi interessa anche relativamente poco che a a qualcuno il mio modo di suonare piaccia o non piaccia, l’importante è che piaccia a me.

Quali sono i bluesmen che ti hanno maggiormente influenzato?
Ah, sono stati talmente tanti gli artisti blues che mi hanno influenzato che è quasi impossibile farne una lista senza dimenticarne qualcuno. Comunque ci proverò: Jimmy Reed, Chuck Berry, T-Bone Walker, Freddie King, Tiny Grimes, Robert Lockwood, Jr, Little Walter, Robert Johnson, entrambi i Sonny Boy, Jimmy Rogers, Muddy Waters, Magic Sam, Lightnin’ Hopkins, Blind Willie Johnson, Blind Blake, Blind Boy Fuller, Big Bill Broonzy, Luther Tucker, Earl Hooker, un sacco di artisti zydeco & swamp, Johnny Guitar Watson, Junior Watson, la Hollywood Fats Band, William Clarke, Smokey Wilson, Johnny Dyer, James Harman, Rod Piazza, Jimmie Vaughan, Earl King, Snooks Eaglin, Pops Staples e gli Staples Singers, Bill Jennings, Billy Butler, Billy Boy Arnold, Jody Williams, Bo Diddley, Amos Milburn,J ohnny and Oscar Moore, Ray Charles, tutti i grandi della SUN e della STAX di Memphis, RL Burnside, Jo Buddy, Tony Joe White e…

Quali sono i 5 cd da portarsi su un’isola deserta o i 5 cd davvero importanti che consiglieresti a qualcuno che volesse avvicinarsi al blues?
1. Lightnin’ Hopkins — The Herald Sessions
2. Robert Nighthawk — Bricks in My Pillow
3. Jimmy Reed — Best Of Jimmy Reed
4. Little Walter — His Best
5. Clarence “Gatemouth” Brown — San Antonio Ballbuster
Cavoli, è stato davvero difficile sceglierli. E’ quasi impossibile far stare tutto quello che vorrei in un elenco di 5 dischi. Voglio dire: non ho avuto nemmeno lo spazio per aggiungere Muddy Waters, T-Bone Walker, Freddie King e B.B. King; e i loro sono dischi che non mi stancherò mai di ascoltare e sarebbero davvero utili ad introdurre la gente al blues dei grandi. O almeno questa è la mia opinione.

Hai suonato con tantissimi grandi del blues. Potresti descrivermi ognuno di loro con una piccola frase o con un aggettivo che in qualche modo li definisca?
Smokey Wilson: 
Che altro potrei dire se non che è uno vero, autentico, senza fronzoli, uno che si fa rispettare e un diavolo di bluesman.

Junior Watson:
È il mio migliore amico. Con Jimmie Vaughan e Hollywood Fats è stato uno dei più innovativi, spesso imitato ma mai eguagliato, chitarrista blues degli ultimi trent’anni.

Rod Piazza:
Uno dei più grandi armonicisti di sempre. Lui, George Smith, Shakey Jake, James Harman, la Hollywood Fats Band, William Clarke e Johnny Dyer sono stati coloro che negli anni Settanta sono riusciti a trasformare un genere considerato minore come il “west coast blues” in un sound ormai apprezzato ovunque. Un amico sincero e sempre pronto alla battuta. Probabilmente il miglior showman e band leader con cui abbia mai lavorato.

William Clarke:
Basta una sola parola: intenso.

Jimmy Rogers:
Una delle persone più piacevoli e gentili che abbia mai incontrato. Forse è dovuto anche a questo il fatto che non sia mai riuscito ad ottenere i riconoscimenti che veramente meritava. Era un tipo “troppo tranquillo” per poter diventare un Muddy Waters o un Howlin’ Wolf. Ma se ascolti attentamente Jimmy, specialmente le sue cose soliste che ha inciso per la Chess, puoi sentire veramente l’essenza più pura del Chicago blues grazie splendido “interplay” che riusciva a creare tra i musicisti. Jimmy ha avuto una grande influenza su di me, sia sul mio modo di suonare che di cantare.

Billy Boy Arnold:
Uno assolutamente imprevedibile. Anche lui con un gran senso dell’ironia. La prima volta che lo incontrai fu quando lo vidi entrare al Buddy Guy’s Legend di Chicago, la notte prima dell’uscita di quel suo disco per la Alligator che lo riportò alla ribalta dopo anni di oscurità (“Back where I belong” del 1993). Per me fu come vedere un fantasma: sembrava che nulla fosse cambiato per lui perché aveva la stessa faccia che avevo visto sui suoi dischi di trent’anni prima. E quando quella sera iniziò a suonare fu come se il tempo non fosse passato. Un altro grande.

Finis Tasby:
Veniva spesso ai concerti di William Clarke ancora vestito da lavoro, saliva sul palco e stendeva tutti con la sua incredibile voce. Lui, Johnny Dyer e James Harman sono i migliori cantanti di blues che ci siano oggi sulla west coast. Almeno secondo me.

Johnny Dyer:
Johnny mi ha insegnato come suonare a volume basso senza per questo perdere potenza sonora. Mi ha anche fatto apprezzare il minimalismo musicale. Ci siamo divertiti parecchio insieme.

Mavis Staples:
Potrei scrivere un libro solo con le cose divertenti che Mavis mi dice ogni giorno. Sorprendentemente, ma non troppo, molte di quelle cose e anche il suo modo di fare mi ricordano molto da vicino Johnny Dyer. Credo che sia il Mississippi che c’è dentro di loro. D’altronde entrambi sono nati là. Ci sarebbero tante cose da dire a proposito di Mavis, ma credo che basti solo ricordare che lei è la stessa sia sul palco che fuori. E’ sempre gentile con tutti. Sempre pronta ad offrire buoni consigli e a trasmettere ottimismo. Anche a lei piace molto scherzare e incoraggia ogni membro della band a trovare il proprio spazio. Mi dice sempre: “ Vai Rick, fagli vedere chi sei!”. E’ una persona vera, assolutamente trasparente in tutto ciò che fa. Lei e sua sorella Yvonne sono praticamente diventate parte della mia famiglia. Spero di continuare a suonare con lei per tutta la vita.

Jeff Tweedy: 
Come direbbe il Reverendo Gary Davis in una sua canzone “ he belongs to the band – lui è uno che appartiene alla band”. Intendo dire che Jeff è uno che crede nella forza di un gruppo di persone che suonando insieme per anni riesce poi a creare un suono più profondo rispetto a un gruppo di turnisti assunti per l’occasione. Inoltre è una delle più intelligenti e colte persone che abbia mai conosciuto, così tanto che a volte la cosa potrebbe addirittura intimidirti. Lui magari non lo sa ma è anche un grande chitarrista. Il livello del suo talento è da paura. E’ capace di scrivere cento canzoni all’anno; e sono sicuro che le sue peggiori composizioni siano meglio delle migliori canzoni di tanti compositori. E un’ultima cosa, anche se conosco Jeff solo da un paio di anni, mi fido di lui come se fosse un fratello.

R.L. Burnside:
L’ho incontrato una volta sola. Ho suonato su un suo disco incidendo la mia parte solo in un secondo tempo. Aveva una gran voce .

Con un album come “Hydraulic Groove” hai dimostrato di non solo di essere uno dei più audaci chitarristi blues contemporanei; ma di essere anche un musicista che pur rimanendo saldamente ancorato alla tradizione, non ha paura di affrontare nuove sfide.
Quale è stata l’idea che ti ha spinto a registrare quel disco?

Ho inciso “Hydraulic Groove” dopo aver lasciato la band di Rod Piazza. In quel periodo ero interessato in quello che i DJ e gli artisti hip hop stavano facendo manipolando suoni e ritmi campionati. Avevo suonato su “Wish I Was in Heaven Sitting Down” di RL Burnside e volevo vedere cosa sarebbe successo lavorando con lo stesso produttore (Andy Kaulkin) miscelando quella tecniche di registrazione con il mio modo di suonare il blues. “Hydraulic Groove” è un disco che è stato accettato in maniera controversa nel mondo del blues: c’è chi lo ha apprezzato e chi no. Nel periodo precedente a quel disco girando con la band di Rod Piazza, vedevo con i miei stessi occhi che il pubblico del blues stava invecchiando inesorabilmente. Si era quindi creata in me una voglia e una speranza di riuscire a riportare i giovani verso il blues, magari mischiandolo con dei ritmi a loro più congeniali. Non sono sicuro di esserci riuscito ma sono tante le persone che considerano quel disco come qualcosa di innovativo tanto che la rivista “Blues Revue” lo ha messo nella sua lista dei 15 dischi più coraggiosi degli ultimi quindici anni. Certo guardandomi indietro oggi, devo ammettere di essere orgoglioso solo di alcune di quelle canzoni e non di tutto il disco. Fu una ispirazione momentanea quella, o meglio una istantanea di quel periodo ma guardandomi indietro credo che le canzoni avrebbero potuto anche essere migliori. A quell’epoca forse non ero ancora un granché come compositore. Ma è stato divertente registrarlo, andare in tour per la prima volta con una mia band. Portarlo in giro fu quasi una sfida. La Rick Holmstrom Band ha percorso parecchie miglia sul pulmino del gruppo per andare a suonare quel disco ovunque. Mi sono fermato un attimo solo quando con la nascita nel 2003 di nostra figlia Lusa mia moglie ed io abbiamo deciso di metter su famiglia. Quello era uno dei ciclici periodi di declino della musica live quindi le occasioni per suonare non erano poi così tante. Poco male perchè ne ho approfittato per prendermi cura di mia figlia mentre mia moglie era al lavoro; esibendomi per qualche tempo solo localmente. Credo inoltre che forse non avrei mai suonato con Mavis (e con Booker T) se non avessi inciso “Hydraulic groove”, visto che Dave Bartlett, oggi il loro manager, all’epoca lavorava per la Tone Cool la stessa etichetta per la quale il disco è uscito, e so che lui mi stimava e mi considerava un artista piuttosto interessante. Quindi tutto sommato sono grato a quell’album perché mi ha aperto diverse porte.

Pensi che se fosse stato possibile allora, i vecchi bluesmen avrebbero usato il computer e le tecnologie oggi disponibili?
Alcuni di loro assolutamente. Little Walter, Chuck Berry, Bo Diddley, Gatemouth Brown e Magic Sam mi sembrano persone che già ai loro tempi erano molto avanti non solo nella loro tecnica strumentale, ma anche nella ricerca del loro sound e in ciò che registravano. Oggigiorno “i nazisti del blues” pensano che tutto ciò che è stato suonato dai vecchi bluesmen sia sacro e assolutamente intoccabile. Quasi come se fosse esistita una fabbrica che dopo aver stampato per anni i dischi di “VERO BLUES” oggi sia chiusa per sempre, con una bella lapide a perenne memoria. Quasi come se quella musica fosse in qualche modo incisa nella pietra come pensa qualcuno di certa musica classica. Beh, di solito a queste persone consiglio sempre di guardare avanti e di ascoltare magari un brano come “I’m Gonna Murder My Baby” di Pat Hare. Quella roba era avanti anni luce e soprattutto non aveva nulla di sacro e intoccabile. I vecchi bluesmen allora come oggi, erano persone normali, non dei. Erano ragazzi che volevano vendere più dischi possibili, conquistare un sacco di ragazze, fare tanti soldi, guidare una Cadillac e bere whiskey. D’altronde Lightnin’ Hopkins non ha mai tenuto workshop di chitarra blues e questo la dice lunga… Ci sono persone che vorrebbero cristallizzare lo stile degli anni ’50, metterlo sotto vetro. Io invece sono abbastanza sicuro che se questi artisti avessero oggi 20 anni, avrebbero un suono completamente diverso da quello che avevano negli anni Cinquanta. Sarebbero molto più vicini a ciò che si suona oggi. Probabilmente mischierebbero i suoni moderni con il funky, il gospel e il soul.

Preferisci suonare dal vivo o in studio? 
Mi piace fare entrambe le cose. A parte la mia famiglia e gli amici, io vivo per suonare; che poi sia su una panchina ai giardini pubblici, in studio di registrazione o alla National Mall a Washington, davanti a centomila persone, per me è lo stesso.

Quale tipi di canzoni ti piace scrivere?
Ma, mi auguro di scriverne di davvero belle… E penso che prima o dopo ci riuscirò.

Ho letto da qualche parte che tu ami considerare il tuo suono come una sorta di miscela tra il sound che aveva Pat Hare nelle incisioni degli anni Cinquanta per la Sun Records e lo stile rilassato di J. J. Cale”. Cosa c’è di vero in tutto ciò?
Tutto è nato il giorno in cui Jim Dickinson mi disse che il mio modo di suonare gli ricordava Pat Hare. Certo non è semplice far sposare quei due tipi di sensibilità ma ci sto provando.

So che ami essere libero musicalmente (come me peraltro). In un’occasione hai affermato che come ha detto Dylan in un’intervista anche tu come lui ti senti un “esploratore musicale”. C’entra qualcosa con il fatto che i tuoi nonni siano stati dei pionieri in Alaska? 
Domanda interessante. A dire la verità è stato Dylan a definire se stesso un esploratore musicale non io. Però la definizione mi piace, e mi piace anche il senso di avventura implicito in quelle parole. Così, si sono d’accordo con Bob su quello. Perchè no? C’è così tanta bella musica al mondo, perchè non esplorarla? A me personalmente piace quella africana, quella brasiliana, quella cubana, quella medio orientale e persino un certo rock del sud della California. E’ il solito discorso: o è buona o non lo è. Non mi piace definire la musica per etichette come blues, jazz, gospel, indie rock, ska, e blah blah blah… Ultimamente mi ha affascinato molto il lavoro di Charlie Musselwhite. Alla fine degli anni Ottanta, Charlie era spesso ospite della William Clarke band quando ci esibivamo dalle parti di San Francisco. Potrà sembrarvi strano ma all’epoca a me non piaceva come suonava Charlie. In quegli anni io ero veramente “dentro” lo stile degli armonicisti blues degli anni Cinquanta, gente come Little Walter, James Cotton, Junior Wells, George Smith, Big Walter e Sonny Boy. Charlie all’epoca suonava una serie di note e di frasi che al mio orecchio parevano quanto meno strane. Non riuscivo proprio a capirle. Non fraintendetemi: ho sempre amato molto Charlie come persona, e chi non lo farebbe, ma non riuscivo proprio a sopportare il suo stile. Poi il giorno che l’ho sentito suonare sul disco di Tom Waits chiamato “Mule Variations”, ho capito tutto. Ho finalmente capito che il suo modo di suonare era più affascinante e coinvolgente di tanti altri. Ultimamente credo anche di aver compreso che Charlie avesse scelto di suonare così in virtù del fatto di aver conosciuto e suonato con molti dei grandi armonicisti originali di Chicago. Questo l’ha sicuramente spinto a ricercare un proprio stile, cercando di evitare accuratamente di suonare le frasi musicali di quei geniali musicisti che frequentava. Per contro, gente come William Clarke, Johnny Dyer, Rod Piazza e tanti altri, erano invece molto contenti di ripetere i fraseggi di quei grandi anche perché diciamolo sinceramente, erano delle gran belle frasi. Insomma quello che penso oggi, è che Charlie Musselwhite fosse molto avanti per quei tempi con la sua costante ricerca di qualcosa di nuovo e differente. Penso anche che questo gli possa aver creato qualche problema con i puristi del blues durante tutti questi anni. Fatto sta che adesso a me Charlie piace tantissimo.

Ai musicisti blues italiani, piacerebbe senz’altro sapere che tipo di chitarra suoni di solito e che tipo di amplificatore ed effetti usi per ottenere il tuo magnifico suono di chitarra.
Per la chitarra uso principalmente una Fender Telecaster. Per ciò che concerne l’amplificazione, per i piccoli concerti vicino a casa uso un EHX Deluxe Memory Man per avere un leggero reverbero e un vecchio Ampeg Gemini. Per i grandi spazi o quando sono lontano da casa, di solito chiedo una riedizione di un Fender Deluxe Reverb o un Super Reverb. Solitamente porto con me un Greer Ghetto Stomp o un Blackstone Overdrive per ottenere un suono un po’ più caldo, a cui aggiungo un delay della DMM. Come vedi cerco di restare sulla semplicità. Qualche volta uso un reverbero Fender esterno specialmente se mi trovo in un ambiente particolarmente “asciutto”. Uso il pedale dell’amplificatore per accendere e spegnere il riverbero o il tremolo a seconda della canzone. Non metto mai pedali a terra. Odio farlo. Anche perchè di solito ci inciampo e cado.

Io concordo con chi afferma che tu, il bassista Jeff Turmes e il batterista Stephen Hodges siate un po’ l’ “arma segreta” di Mavis Staples. Tutti voi suonate con un senso dello spazio che mi ricorda l’approccio degli arrangiamenti degli Staples Singers e tutto ciò suona fantastico. E’ vero che Jeff Tweedy inizialmente aveva pensato di usare i Wilco per accompagnare Mavis nelle sessions di “You Are Not Alone” ma che poi conquistato dal vostro sound ha deciso di fare registrare tutto a te, Turmes e Hodges?
Questa è una cosa che dovresti chiedere a Jeff Tweedy, comunque lui era all’ Hideout di Chicago quando abbiamo registrato il disco live e in quei giorni sembrò davvero essere entusiasta di noi tanto da dire al suo manager che gli sarebbe piaciuto lavorare con noi. Quello che io ho capito è che lui ne ha parlato agli altri componenti dei Wilco, dicendo loro del suo progetto di registrare Mavis e di usare noi come band. Credo che lo abbia fatto principalmente per sondare la loro reazione. E pare proprio che tutti loro abbiano reagito positivamente alla notizia, offrendo i loro servizi musicali se necessario. Così è andata a finire che Pat Sansone ha suonato un po’ di piano e un po’ di organo qua e là e naturalmente anche Jeff Tweddy ha suonato la chitarra in diverse canzoni. Siamo stati veramente fortunati a lavorare con lui perchè è un grande, sotto tutti i punti di vista.

Quando è incominciato il tuo rapporto con Mavis? So che c’è una piccola storia interessante dietro a tutto quanto. Una storia che coinvolge anche Ry Cooder. Puoi raccontarmela brevemente?
Avevo suonato in duo con Mavis nel 2005 ai Blues Awards riscuotendo grande successo. Dave Bartlett, il manager di Mavis, cominciò quindi a pensare di farci lavorare insieme più spesso. Nel 2006 la Rick Holmstrom band apriva lo show di Mavis sul molo di Santa Monica. Era il periodo in cui lei stava lavorando con Ry Cooder sul suo disco “We’ll Never Turn Back”. Noi avevamo ormai terminato il nostro set ma c’era un problema. La band di Mavis non era ancora arrivata, erano rimasti bloccati all’aeroporto. Così prima gli organizzatori ci chiesero di suonare ancora un po’ con la nostra band e poi di accompagnare Mavis in qualche canzone prima che arrivasse la sua band. Durante quelle canzoni, Ry Cooder se ne stava al lato del palco gridandomi cose del tipo: “Vai Rick, bellissimo quello che fai!”. Accecato dai fari, non avevo capito chi fosse quel tipo che mi stava incitando in maniera così plateale. Era Ry Cooder che insieme a Mavis subito dopo quella performance mi disse che preferiva di gran lunga noi alla band che la accompagnava di solito. Fu così che più o meno un anno dopo il manager di Mavis mi chiamò chiedendomi di mettere insieme una band per lei. Così ho chiamato Jeff Turmes e Stephen Hodges che già suonavano nella mia band e poi contattai Donny Gerrard uno dei più sottovalutati cantanti di oggigiorno. Il nome di Donny dovrebbe davvero tra quello dei grandi. Abbiamo cambiato in questi anni qualche corista femminile ma adesso ne abbiamo trovata una che è un’autentica gemma: Vicky Randle. Lei, Donny e naturalmente Yvonne Staples insieme cantano meravigliosamente.

Tu sembri aver imparato come ottenere il suono essenziale della chitarra temolo di Pops Staples che è un po’ il marchio di fabbrica degli Staples Singers. Come hai fatto? Quali sono i segreti, sempre che ci siano, per avvicinarsi al suono e alla tecnica di Pops Staples?
E’ praticamente impossibile cercare di replicare il suono di Pops. A volte sento qualche idiota dire che le frasi musicali di Jimmy Reed, Chuck Berry o Steve Cropper sono facili da suonare. Non lo sono per niente. Il sound e lo stile di un grande musicista sono unici. Proprio come le sue impronte digitali. C’è così tanta anima, sentimento e peculiarità in persone come quelle che l’unica cosa che ti puoi augurare come musicista è di poter assorbire anche solo una piccola parte di ciò che di buono c’è dentro di loro. Di base io cerco di chiedere a Mavis cosa le piace, che tipo di suono la ispira mentre canta. Alcune canzoni suonano giuste usando solamente il tremolo e lo stile minimale di Pops. Altre sono più influenzate da Curtis Mayfield. Altre ancora da Steve Cropper. Per altre invece mi affido alla mia esperienza e al sound che sono riuscito a crearmi. Quello che cerchiamo di fare è comunque di avere il nostro suono. Mavis, sebbene lei stessa non si consideri un’artista blues, ha dentro di sè il vero spirito di questa musica. Come dicevo prima, sarà il Mississippi. Anche per lei il suono, il feeling, l’anima e l’emozione del momento, sono molto più importanti della velocità, della tecnica o di certi giochetti pirotecnici. Io sono sempre stato un grandissimo fan di Pops e mi fa davvero piacere che la gente dica che porto avanti il suono da lui creato. In realtà però,ciò che io suono deriva soprattutto da me stesso, dalla grande band che mi circonda e naturalmente dalla stessa Mavis.

Mi puoi brevemente parlare del progetto “Twist – O – Lettz”?
L’armonicista e cantante Juke Logan venne una sera a trovarci durante un concerto della Rick Holmstrom band per suonare qualche brano con noi. Quella sera non c’era Jeff Turmes (che aveva un impegno improrogabile). Ci divertimmo tanto quella sera a suonare solo con chitarra, batteria e armonica e così a Juke venne l’idea di registrare un disco con quella formazione “senza basso”. Quel progetto è diventato poi “Twist – O – Lettz” che abbiamo registrato dal vivo in studio in un paio di sere. E’ un disco fatto per divertimento e per divertire. Qualcosa di ruspante e diretto che forse non piacerà agli ascoltatori più sofisticati. Hodges in questo disco è completamente dentro al suo geniale trip waitsiano che lo fa percuotere con le bacchette su qualsiasi cosa abbia un suono e poi c’è Juke che è uno dei più vivaci armonicisti e cantanti che io conosca. In più anche loro come me amano sperimentare; così tutto è andato per il meglio. Cosa strana è il fatto che quella formazione non ha praticamente mai suonato dal vivo. Siamo stati tutti così impegnati con altre cose che non c’è stata occasione, ma penso che accadrà prima o poi.

Foto di Angelina Megassini